La cucina filippina

La pelle croccante del lechón kawali, una nota di aceto di palma e il delicato profumo del riso al pandan: fin dal primo boccone l’arcipelago si svela in un caleidoscopio di sapori.

Ad ogni giro emerge un nuovo frammento di storia. Eccoli comparire, uno dopo l’altro: i focolari austronesiani, le giunche cinesi cariche di salsa di soia, i galeoni spagnoli colmi di achuete e prosciutti, e infine il latte in lattina americano dei pacchi di soccorso.

Lechón kawali filippino su sfondo di legno
Lechón kawali: il maiale croccante filippino

Questo articolo attraversa quel turbinio di influenze restando però ancorato al cuore autoctono che tutto tiene insieme. Dal kinilaw preispanico ai mercati delle spezie di Mindanao, il viaggio prosegue fino ai dibattiti odierni sull’autenticità. Ne emergono quattro tratti distintivi: ingegnosità, equilibrio, ritualità comunitaria e orgoglio regionale, grazie ai quali 7 641 isole parlano con un’unica voce ricca di sapore.

Radici storiche e fondamenta autoctone

Ben prima che le vele di Magellano comparissero all’orizzonte, i cuochi austronesiani affumicavano il pesce su gusci di cocco, sobbollivano il pescato della barriera in aceto di palma e avvolgevano il riso in foglie di banana per le traversate interinsulari.

Tecniche come inihaw (grigliatura a fuoco vivo), paksiw (brasatura nell’aceto) e kinilaw (pesce o frutti di mare marinati nell’aceto, stile ceviche) costituivano una cassetta degli attrezzi di conservazione ideale per i tropici umidi. Il riso era il perno di ogni pasto, mentre i condimenti fermentati ( bagoong, patis e varie bevande locali) arricchivano la tavola con la loro sapidità e personalità.

Kinilaw na Isda – Intestazione
Kinilaw casalingo di tonno

Le influenze straniere hanno stratificato nuove possibilità su questa matrice. I mercanti hokkien versarono la salsa di soia in dispensa; i religiosi spagnoli introdussero piatti da fiesta, trasformando gli stufati quotidiani in spettacoli; i GI del XXe secolo lasciarono scatole di Spam che i filippini trasformarono in puro comfort.

Eppure il nocciolo è rimasto intatto. Nel libro di cucina del 1918 di Pura Villanueva-Kalaw, Condimentos Indígenas, un adobo di pollo batangueño condivide l’inchiostro con stufati di calamaro pre-coloniali: prova che le novità si integrano, non sostituiscono. Più tardi Doreen Fernandez osserverà che colorare con la salsa di soia è solo «un trucco moderno per fare più in fretta»; l’aceto, sosteneva, resta l’anima dell’adobo.

Attraverso secoli di sconvolgimenti, aceto, cocco e pesce fermentato sono rimasti costanti

Ingredienti chiave e tecniche

L’acidità domina il palato, che provenga dall’aceto di canna, dai baccelli di tamarindo o dal croccante stellato del kamias.

La profondità fermentata nasce dal bagoong o dalla limpidezza ambrata del patis; la ricchezza, invece, dal latte di cocco che luccica come seta nella pentola in ebollizione.

La maggior parte dei piatti inizia con una base di ginisa (aglio, cipolla e pomodoro rosolati), quindi viene cotta a fuoco lento, grigliata a fiamma viva o avvolta in foglie di taro e cotta al vapore. A tavola ognuno prepara il proprio sawsawan, modulando sale, piccantezza e acidità a piacere, e spesso mangia kamayan, plasmando il riso con le dita per il boccone perfetto.

Diversità regionale: Luzon, Visayas, Mindanao

A Manila il rumore dei clacson impallidisce di fronte alla potenza sapida del bagoong ilocano. Il nord di Luzon insaporisce verdure come l’ampalaya e la zucca con una pasta salmastra nel pinakbet, la cui amarezza viene addolcita dal riso.

Due province più a sud, i Kapampangan celebrano l’opulenza: guancia di maiale sfrigolante in ricetta di sisig, bringhe di riso glutinoso ingiallito con curcuma e cioccolata calda montata e addensata con arachidi macinate, nota a Pampanga come suklating batirul. Nella penisola di Bicol il latte di cocco addolcisce ed esalta il bruciore del peperoncino labuyo.

Sisig su sfondo di legno
Sisig

La cucina delle Visayas profuma di mare e di carbone. Il lechón di Cebu è così croccante che gli abitanti sostengono «non ha bisogno di salsa». I pescatori di Mactan praticano il sutukil: un solo pesce, tre preparazioni—grigliato, stufato e immerso crudo nel lime per il kinilaw. A Iloilo arrivano scodelle fumanti di batchoy, frattaglie di maiale coronate da chicharrón sbriciolato: comfort food a buon mercato.

Mindanao e le isole Sulu fondono curcuma, cocco bruciato e l’aroma della foglia di makrut. Una cuoca maranao inizia dal palapa, una relish di cipollotto piccante che ravviva qualsiasi pentola, mentre le famiglie tausug anneriscono un brodo di manzo con cocco carbonizzato nel tiyula itum. Le tradizioni halal sostituiscono il maiale con manzo, pollo o pesce, ma il banchetto comunitario, il pagana, si svolge sempre su vassoi poggiati a terra e rivestiti di foglie di banana.

Piatti emblematici e profili di sapore

Il nord di Luzon tende al salato-amaro, con stufati profumati di etag affumicato; le pianure centrali risuonano di accenti spagnoli—pomodoro, fegato, ricchezza norcina; il sud di Luzon lascia che la crema di cocco addolcisca il fuoco del peperoncino.

Le cucine visayane prediligono affumicatura, acidità agrumata e una dolcezza discreta che trasforma la pancetta di maiale in humba, brasata in una salsa di soia dolce. Più a sud, la curcuma tinge d’oro il riso, mentre il cocco bruciato annerisce i brodi. Qui la diversità non è una digressione, è la definizione stessa.

Autenticità ed evoluzione

Quando nel 2021 un comitato governativo propose una ricetta «standard» dell’adobo, la rete insorse. Meme proclamavano: «Il miglior adobo è quello di tua lola», mentre chef come Carlo Lamagna ricordavano in conferenze TEDx che l’autenticità è una costellazione mutevole di ricordi, migrazioni e dispense.

I cuochi della diaspora sperimentano: pandesal all’ube viola a New York, adobo confit a Melbourne, accendendo thread che oscillano fra orgoglio e rigidità purista.

Piatto di lumpia dorati, guarniti con cipollotti e serviti con una salsa rossa piccante.
Lumpia deliziosi

I TikToker rispondono al cliché pigro del «cibo marrone e grasso» filmando piatti regionali sgargianti: un curry Iranun, un palapa vivace, un kinilaw ultrafresco. Perfino gli chef sperimentano ormai il bagoong nei dessert, ampliando ancora la mappa dei sapori.

Ciò che definisce davvero la cucina filippina

Spogliate le etichette e restano quattro pilastri. Primo, l’ingegnosità: dal muso al grugno, l’economia trasforma una testa di maiale in star dei banconi (sisig) e il sangue di maiale in uno stufato saporito (dinuguan).

Secondo, l’equilibrio: l’acido incontra il salato, il grasso stuzzica il croccante, il dolce flirta con l’amaro; il palato non resta mai sbilanciato a lungo.

Terzo, il pasto comunitario: i piatti arrivano in stile salu-salo, il riso ammucchiato al centro, ciotole di sawsawan disposte tutt’attorno perché ognuno aggiusti il gusto boccone dopo boccone.

Infine, la pluralità regionale: dalle polpette uvud di Batanes alle lumpia croccanti di Manila, fino al pyanggang pepato di Tawi-Tawi, i dialetti locali si esprimono nelle pentole.

Questi pilastri smentiscono alcuni miti persistenti. Derivata? Non proprio: se il pancit arriva dalla Cina, gli Ilocani lo hanno adattato al loro gusto sapido e amaro.

Invariabile? Chiedetelo al bicolano che incorpora il latte di cocco nell’adobo o alla batangueña che lo profuma di curcuma gialla: entrambi restano fedeli all’eredità.

Poco sana? Le tavole di ogni giorno sono piene di brodi di kangkong, insalate di papaya e kinilaw dalla freschezza oceanica. Persino il lechón grasso delle fiestas è bilanciato da una salsa fegato-aceto e da montagne di papaya marinata, un contrappunto rinfrescante integrato nel piatto.

Alla base di tutto c’è il riso: cotto a vapore, soffiato, pestato, fermentato. Accoglie il sugo di uno stufato di pesce acido, attenua il calore di un laing piccante e assorbe l’ultimo bagliore di una salsa di soia e calamansi. Senza riso, scherzano gli Ilocani, un pasto è solo «allenamento a mangiare». E con esso arriva il diritto alla personalizzazione: nessun commensale viene biasimato se immerge il maiale nell’aceto o aggiunge una manciata di peperoncino al sinigang. Questa libertà personale, iscritta nel sawsawan, è filippina quanto il campo da basket del barangay di fronte.

Le ricette sopravvivono soprattutto per via orale: «basta, tansyá-tansyá» (vai a occhio). Una cuoca sa che l’aceto ha “cotto” quando il vapore perde la sua acidità, non quando suona un timer. Così il sapere passa da un polso all’altro, di generazione in generazione, fluido come il latte di cocco che scivola dal mestolo alla pentola. La cucina rimane viva proprio perché si rifiuta di cristallizzarsi.

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